Si può scalare una montagna prima ancora di essere venuti al mondo? “Tom era nato il 16 ottobre 1988 nel Derbyshire. Ma quando era ancora appena un feto di cinque mesi era stato sulla famigerata parete Nord dell’Eiger con la mamma, che aveva salito la montagna svizzera. Tom era in quella fase dello sviluppo in cui il nascituro, avvolto nella placenta, inizia a sentire le carezze della mamma e a percepire la luce esterna. Oltre alle carezze avrà sentito l’appoggiarsi delle piccozze, colto lo sbattere dei ramponi e il tintinnio di chiodi e moschettoni”. A scrivere queste righe è Marco Berti, al quale lo sforzo di immedesimazione con Tom Ballard, alpinista inglese morto a trent’anni sul Nanga Parbat lo scorso febbraio mentre vi si trovava in spedizione con Daniele Nardi, viene facile.
Berti, veneziano con assidua frequentazione delle Alpi venete, è alpinista anche lui. E – incrocio particolare – è anche un bravo narratore. Scrive libri che prima che di corde e di chiodi da scalata parlano di incontri con le persone: il primo era “Il vento non può essere catturato dagli uomini” (Priuli & Verlucca), sorta di riassunto emotivo di decenni di ascese tra le montagne. Gli interessa, intorno ai monti, l’uomo, evitando il facile e modaiolo inno alla natura solitaria che è il tema di tanta parte della letteratura alpina di questi decenni. Marco Berti ha scritto un nuovo libro, si intitola “Tom Ballard. Il figlio della montagna”, lo pubblica Solferino, ed è il primo tentativo di ricostruire la vita e le imprese di un giovane talento dell’alpinismo dopo la tragica fine, avvenuta con l’italiano Nardi sullo Sperone Mummery, sulla ardua parete ovest del Nanga Parbat, tormentata dalle valanghe.

Un ritratto “pulito” di un ragazzo inquieto e riservato, insieme audace e silenzioso. Ballard era un figlio d’arte, come si è visto: la mamma di Tom che lo porta in grembo nelle prime pagine è la mitica Alison Hargreaves, nota per le sue ascese in solitaria delle sei classiche pareti nord delle Alpi, prima alpinista a salire nel 1995 Everest e K2 consecutivamente nello stesso anno e morta proprio sul K2 dopo averne raggiunto la cima. Tom aveva sette anni, allora. Crescendo segue in modo naturale, osmotico, la passione della madre, non intimorito dalla tragedia. Si trasferisce nelle Dolomiti, dove conosce e si innamora di Stefania Pederiva, scalatrice a sua volta; qui, in Val di Fassa, Ballard fa base per innumerevoli spedizioni tra le Alpi e l’Himalaya. E qui conosce Berti, con il quale sale molte delle cime delle Dolomiti, dalla Marmolada al Catinaccio, dalle montagne di Cortina d’Ampezzo al Cadore.
Ma la rincorsa psicologica al K2 è cominciata: Tom vuole andare lassù, dove Alison è stata uccisa da una tormenta mentre rientrava dalla vetta. Vuole salire quella montagna che ha già visto da bambino, quando a sole due settimane dalla morte della mamma vi si era fatto portare per guardarla da lontano e dove, forse, la natura assume più che altrove il ruolo ambiguo di ente che dà e che toglie la vita. “Il Nanga Parbat dove è morto era una marcia di avvicinamento al K2, alla madre”, spiega Berti. Parlare di Ballard con un senso di giustizia che coincida con la discrezione è l’impegno che l’autore si è dato, anche quando si tiene lontano dal polverone riguardante la fine tragica dei due, sul contrasto di carattere di Tom con lo scalatore italiano, estroverso e iper-comunicativo, che la montagna la raccontava con disinvolto ricorso a media non tradizionali, come Le Iene. “Ho imparato il silenzio, evitando di farmi coinvolgere nei commenti gratuiti sui social, nel gioco delle parole inutili”, dice Berti.
Il libro esce con prefazioni “di peso”: tra le altre, quella di Reinhold Messner, che ha conosciuto non solo Tom, ma soprattutto lo Sperone Mummery, che fu costretto a discendere nel 1970 e dove perse il fratello. Riguardo all’ultima spedizione di Tom e Daniele, Berti pesa le parole. “Qualcuno ha parlato di eroismo, altri hanno parlato di pazzia. Nemmeno io ho capito la scelta di salire quella via, solo Tom potrebbe spiegarla. Per me hanno commesso un errore, che purtroppo hanno pagato caro. Potevano andare a fare una cosa veramente difficile ma meno pericolosa. Invece, lo sperone Mummery non è difficile, è pericoloso. E non è affatto inviolato: Messner è stato costretto a violarlo. Sappiamo com’è andata”.
Francesco Chiamulera
(Corriere del Veneto, 22 ottobre 2019)