Personaggio monumentale, clamorosamente antesignano, Italo Svevo richiede al lettore una particolare sensibilità. Non basta concentrarsi sulle sue pagine, bisogna partire da lontano, conoscere la Trieste dalle molte anime e culture in cui Svevo è radicato. Cogliere gli interrogativi racchiusi come in un caleidoscopio nel suo capolavoro “La Coscienza di Zeno”, per rileggerlo nel mezzo della narrativa europea. Il paradosso della lingua in cui è scritto il romanzo, l’italiano, che per Svevo non era la lingua madre, ma quella appresa sui libri di scuola. Mauro Covacich, in uno spettacolo unico, ci regala le chiavi per addentrarci in questo universo. Triestino di nascita, scrittore amato in Italia e all’estero, conosce bene la fertile complessità che Aaron Hector Schmitz ha incastonato nel suo nom de plume: Italo Svevo. Scrive Covacich: «Passava a prenderci col suo autobus. Era riuscito a farsi dare il turno del mattino. Salivamo e lui era lì, bello nella sua divisa, che guidava. Mia sorella alle elementari, io alle medie. Scuola Italo Svevo. In via Italo Svevo. Cosa sapeva mio padre di Italo Svevo? Poco, credo. Non ho fatto in tempo a chiederglielo. Ma anche di me non sa niente. Non sa cosa sono diventato. E neanch’io so cos’è diventato lui. Eppure mi capita spesso di vederlo, che mi controlla col suo sguardo beffardo, se le sparo troppo grosse, se sono troppo complicato. Ci parliamo, anche. Ora ad esempio potrebbe dire: ‘Vara che no xe una seduta spiritica, xe una lezion. Okay, papà’».