Si esce dalla lettura di Cesare De Michelis “in parole sue” così rinfrancati e allegri, persino elettrizzati, che i tempi cupi che attraversano la letteratura e l’arte sembrano un po’ meno cupi, e addirittura De Michelis quasi non sembra andatosene davvero, vivo e presente com’è con la sua voce inequivocabile, vivo attraverso le sue idee luminose. È quel che succede leggendo “I libri sono come le ciliegie”, di Marco Sassano, amico di De Michelis chiamato da Marsilio a raccogliere il più possibile del pensiero dell’editore veneziano, scomparso nell’agosto 2018. Sassano ha il merito di andare dritto al sodo: la vita, raccontata per aneddoti e soprattutto per citazioni dirette, di un irregolare, di un intransigente non intollerante, di un uomo libero. Pieno di ruvidezze e di dolcezze, di una sfrontatezza mai volgare e di una curiosità vorace. Dalla gioventù veneziana, in una famiglia di protestanti colti, operosi e dediti alla scienza e alla cultura – cinque fratelli, i De Michelis, Gianni, Cesare, Marco, Giorgio, Maria Ida, tutti professori “ordinari”, come sottolineava lui – Sassano racconta un De Michelis precocissimo, pieno di passioni: il teatro, il cinema, l’arte, la politica.
Fonda giornalini scolastici e poi, all’università, riviste di critica letteraria. Discute, neanche maggiorenne, con Vittorini, rimproverandogli quello che, a proprio giudizio, manca nella sua opera, guadagnandosi lo stupore divertito dell’autore della Conversazione in Sicilia. Polemizza coi fratelli Taviani. In una manifestazione si fa spaccare il naso da un fascista e riceve il saluto affettuoso del leader socialista Pietro Nenni. A diciassette anni dà vita a una compagnia teatrale: mette in scena Brecht e Ionesco, chiede delle musiche di scena a Paolo Grassi, fondatore e direttore del Piccolo Teatro, titolare dei diritti. In una settimana gli arriva una diffida formale a realizzare la messa in scena. “Gli risposi immediatamente con una maleducata lettera di fuoco che suonava pressappoco: ‘Gentile dottor Grassi, lei è un cafone. Come si permette di diffidarmi? La libertà dove l’ha vista? Lei mi sembra un bell’esempio di cultura fascista, altro che Brecht!’”. Grassi lo convoca a Milano, presente anche Giorgio Strehler. “Si aspettavano di trovarsi di fronte un uomo adulto. Ecco invece un diciassettenne anche se di cento chili di stazza. Dopo un’accalorata discussione diventammo amici e lo siamo rimasti per tutta la vita”.

Poi, approdato all’università, l’incontro con Vittore Branca, il grande italianista. È un fulmine nella vita di un giovane fino ad allora indeciso su quale strada prendere: si laurea a tempo record con una tesi di mille pagine e si innamora dell’insegnamento universitario, che lascerà solo nel 2013, con una magnifica lezione tenuta all’Università di Padova. Branca dà a De Michelis una chiave per la ricostruzione di quella che Cesare considererà sempre la corrente non abbastanza valorizzata della civiltà letteraria italiana nei secoli: dal Decameron di Boccaccio, con la sua “gente nova” dalla esuberante vitalità, su su attraverso Guicciardini fino a Ippolito Nievo, passando per Goldoni “nostro contemporaneo”: uno “che va a vivere a Parigi perché è la città più moderna d’Europa e quando scopre i boulevard dice che sono la cosa più bella del mondo. È innamorato del cambiamento. Certo, se poi lo si vuole chiudere nello stereotipo di una Venezia decadente, carnevalesca, puramente settecentesca con i cicisbei e le damine, allora perde un po’ del suo senso profondo”.
Infine Giuseppe Berto, “il più grande scrittore del secondo Novecento” secondo De Michelis, “esemplarmente non ideologico e conseguentemente niente affatto ‘novecentesco’, perché è l’unico che non dà una lettura ideologica dei fatti di cui è stato testimone”. C’è poi l’avventura straordinaria di Marsilio: i trionfi, come la scoperta di Susanna Tamaro, che in seguito lo “tradisce” e se ne va a Baldini Castoldi Dalai, per poi riconciliarsi con l’editore, ma anche le difficoltà. Dagli anni bui di Tangentopoli, quando nel fumus antisocialista Cesare “fece la valigetta con la biancheria, il pigiama, lo spazzolino da denti e si preparò al peggio, che non venne”, come scrive Gian Arturo Ferrari, alle difficoltà economiche di fine anni Novanta, superate anche grazie al boom del giallo svedese, Larsson in primis.
Si diceva dell’ultima lezione, che si intitola “Ascesa e caduta della grande letteratura italiana”. Per Cesare “una sorta di testamento, un bilancio di quanto è accaduto negli ultimi cinquant’anni”. Ovvero, “era finita l’idea della letteratura come qualcosa che cercava di riassumere il mondo: quella che è stata chiamata la letteratura minimalista, avendo perso fiducia nei propri mezzi, si è infatti occupata di quello che avveniva nei cortili, nei corridoi. Non aveva più il coraggio di innalzarsi, di guardare il mondo e dire: ho visto e te lo racconto. Oggi ognuno racconta la stradina dove è nato e poco di più”. Quanto al titolo, secondo De Michelis le ciliegie sono quel frutto che se mangiato singolarmente non conta quasi nulla, quasi non ha gusto, ma che prende senso se considerato in una successione. Così i libri: “il testo è la meta, non è il punto di partenza. Dopo aver letto un libro, dire che è bello o brutto, in astratto, sono capaci tutti: io, la commessa della Standa, tutti. Quindi, prima di leggere un testo bisogna accumulare una serie di informazioni che ti consentano di leggerlo, di interrogarlo, di riuscire a capire la lingua delle risposte. È l’arte del pregiudizio”.
Francesco Chiamulera
(Corriere del Veneto, 10 novembre 2019)